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Sciopero generale

Non abbiamo un immaginario, e senza immaginario la nostra esistenza è votata al consumo. Nient’altro che questo. Le pratiche artistiche sono per un necessario posizionamento di sopravvivenza, una maniera per sabotare il sistema capitalista, la tristezza del finito.

Senza lavoro, però, non c’è arte. Senza salute pubblica, senza scuola, senza università, non c’è arte.

Illudersi che l’arte sia un’epifania, che possa esistere senza una produzione artistica, è ingenuo. Non attribuire valore economico ai processi di elaborazione artistica, fisica e intellettuale, significa slegare la bellezza dalla materialità dei bisogni. È velleitario, e classista.

Per questo i tagli impietosi della nuova legge di bilancio fagocitano la possibilità che l’arte sopravviva, che metta in discussione lo status quo, che emerga da prospettive minoritarie, che guadagni il centro dai margini. Che affiorino modelli alternativi a quello dominante. 

Vedere nelle armi l’unico investimento utile vuol dire rafforzare un modello machista di sopraffazione. Da cui le nostre esistenze, pur precarie, sentono l’urgenza di prendere le distanze: in questi teatri di guerra, non saremo il fondale insanguinato; non applaudiremo una performance stanca, un esercizio di potere con gli stessi attori maschi e mediocri di sempre.

Interromperemo quello spettacolo.

Questo è il nostro sciopero, una maniera per toccare terra, guardarci in faccia, e fare in modo collettivamente che esperienze come la nostra non restino solo un respiro nell’apnea. Invertire insieme la rotta della vergogna.



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